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La cavalleria sabauda durante la Guerra di Successione Spagnola
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Escrito por Chiozza   
Utilizzando due set di cavalieri svedesi della Grande Guerra del Nord della Strelets ho cercato di riprodurre i colori di alcuni reggimenti di cavalleria del Ducato di Savoia dei primi del '700 e anche di un particolare reggimento di corazzieri austriaci loro alleati durante la Guerra di Successione Spagnola. Ho trovato infatti i due set "035-Reitars of Charles XII" e "044-Leib-Drabants of Charles XII", oltre che magnificamente scolpiti, particolarmente adatti a riprodurre la cavalleria del tempo, anche di altri Paesi. Per i cavalieri e i dragoni piemontesi ho usato il secondo set ma con i cavalli del primo, per i corazzieri imperiali del Generale Visconti il primo sia per i cavalli che per i cavalieri. Infatti ho preso solo un cavallo dal set 044, quello del Visconti stesso: la foggia particolare della sella, debitamente privata delle corone della monarchia svedese scolpite in rilievo, si prestava in maniera perfetta per dipingerci sopra l'aquila imperiale asburgica ad ali spiegate...



Come si può vedere dal confronto con i disegni uniformologici che corredano l'articolo (tratti dal libro "A me i miei dragoni! Torino 1706 il Piemonte sfida il Re Sole", di Fabio Fiorentin, Gaspari Editore, 2006), ho riprodotto 4 dragoni di Sua Altezza Reale, 3 cavalieri del Savoia Cavalleria, 2 dragoni del Genevois e infine 4 corazzieri "Visconti".






La mia intenzione è quella di cercare di inquadrare brevemente, da un punto di vista storico, gli episodi salienti della Guerra di Successione Spagnola di cui questi reparti furono protagonisti.

Con la salita al trono del Ducato di Savoia di Vittorio Amedeo II, dal 1683 inizia la sua azione di riorganizzazione dell'arma di cavalleria. In origine infatti le compagnie erano reclutate su base volontaria ed erano persino prive di una qualche uniformità di divisa, essendo lasciato quest'ultimo aspetto al gusto personale e alle possibilità dei colonnelli comandanti delle singole unità. La riforma comportò la formazione di veri e propri reggimenti, come per la fanteria, con uno stato maggiore e con divise regolamentari. Furono creati un reggimento di "corazze" e due di dragoni, intesi come fanteria montata che, dotata di armamento più leggero, all'occorrenza, poteva anche combattere a piedi.



Ma è circa dieci anni dopo, nel 1692, che l'arma di cavalleria cominciò ad acquisire una struttura stabile che verrà conservata fino alla fine della Guerra di Successione Spagnola e alla creazione del Regno di Sardegna. La cavalleria vera e propria venne ad articolarsi in due reggimenti, Piemonte Reale e Savoia Cavalleria; i cavalieri, dotati di pesanti sciabole, combattevano operando rapide cariche di sfondamento del fronte avversario. Già il nome delle due unità ne specifica i due principali bacini di reclutamento: infatti il Piemonte e la Savoia, le due principali realtà geografiche del Ducato, erano tenute a fornire un ben determinato numero di effettivi ciascuna. I dragoni, invece, erano costituiti da tre reggimenti: di Sua Altezza Reale, di Piemonte e del Genevois. Infine c'erano le 4 compagnie di Guardie del Corpo, con compiti di custodia della persona del Duca e della Famiglia Reale, ma molto spesso impiegate anche in battaglia. Per tutti, lo stato maggiore reggimentale era costituito da colonnello comandante, luogotenente colonnello, maggiore, aiutante maggiore, garzon maggiore, cappellano e chirurgo maggiore. Le unità di cavalleria erano dotate di trombettieri e quelle di dragoni, in pratica fanti a cavallo, di tamburi, come la fanteria appunto.



Il carattere peculiare della cavalleria sabauda, che la distingue nettamente dalla fanteria, fu la composizione esclusivamente nazionale delle sue file; non esistevano cioè reggimenti stranieri come quelli svizzeri, alemanni o irlandesi delle forze a piedi. Un'altra caratteristica importante è il suo notevole peso, nonostante il relativamente esiguo numero dei cavalieri, nell'economia del piccolo ma splendidamente organizzato esercito ducale: questo tanto per la conformazione fisica del territorio, che non consentiva l'allevamento di cavalli su larga scala, quanto per il costo, elevato per le casse di un piccolo regno, di equipaggiamento e di mantenimento dell'arma. Ad ogni modo Vittorio Amedeo fu ampiamente ripagato dei suoi sforzi e della sua lungimiranza: il battesimo del fuoco della sua moderna cavalleria avvenne già nel 1693, alla disastrosa battaglia della Marsaglia, quando le sue forze montate, battendosi con audacia non comune e subendo forti perdite, fecero da schermo alla fanteria coprendo la ritirata dell'esercito dei confederati senza che si tramutasse in una rotta sanguinosa.

Il Duca Amedeo, già dal 1701, era stato costretto quasi con la forza a far parte dell'allenza franco-spagnola contro l'Impero e le potenze marittime (Inghilterra e Olanda), aveva pertanto fornito truppe, ma in realtà temeva il potente vicino francese, nelle cui mire espansionistiche c'era anche il piccolo ducato alpino. Il Re Sole temeva però un voltafaccia del Savoia che si stava infatti avvicinando, almeno diplomaticamente, a Vienna, quindi ordinò l'arresto e il disarmo immediato, il 29 settembre 1703, dell'esercito savoiardo a San Benedetto Po. Il Duca perse in questo modo molti soldati e ufficiali, circa 3.600 fanti e 1.000 cavalieri, nonostante parecchi di questi riuscissero in seguito a fuggire, spesso con la compiacenza dei loro carcerieri spagnoli che in fondo provavano vergogna per quello che era loro sembrata un'azione da vigliacchi contro i loro alleati di un tempo nella Guerra della Lega di Augusta, ma se non altro ebbe il pretesto, da lui stesso astutamente provocato in fondo, per una disinvolta inversione di campo, più rispondente ai suoi ambiziosi progetti per il piccolo ducato. Infatti avrebbe preferito un Ducato di Milano asburgico che non l'attuale Vicereame di Spagna, per non finire stritolato tra due fuochi. La Spagna infatti era governata dal nipote del Re di Francia, Filippo V d'Anjou, e dunque strettamente legata ad essa per ragioni dinastiche. Inversamente, come stato cuscinetto tra i Borboni e gli Asburgo, il Savoia avrebbe potuto costituire l'ago della bilancia mutando di volta in volta alleanze secondo la propria convenienza.



Nella fase successiva al colpo di mano di San Benedetto Po, quella degli assedi francesi di Asti, Alessandria, Susa, Aosta, Vercelli, Ivrea, Verrua Savoia, Montmélian, Nizza, Chivasso-Castagneto, l'arma di cavalleria ebbe un ruolo defilato rispetto alle grandi operazioni poliorcetiche, ma non per questo meno importante. Infatti, fino a quando il 13 maggio del 1706 i Francesi iniziarono le operazioni d'assedio intorno alla capitale, la cavalleria continuò incessantemente a vessare il nemico attaccandone le colonne di rifornimenti, gli sterratori al lavoro, le colonne isolate in marcia, i reparti impegnati nei foraggiamenti in aperta campagna, costituendo costantemente una spina nel fianco per gli assedianti e rallentandone efficacemente i progressi con rapide sortite. Finché, il 17 giugno del 1706, il Duca Amedeo decise di sottrarsi all'assedio di Torino e, eludendo la sorveglianza francese presso la Porta di Po, riuscì a raggiungere la sua fedele cavalleria a Carmagnola. La sua decisione era dettata da due ordini di motivi: primo, sperava, cosa che puntualmente avvenne, che il Maresciallo Duca De La Feuillade distogliesse parte delle sue truppe per inseguirlo e tentare di catturarlo, rallentando così le attività ossidionali e dando un po' di respiro a Torino; secondo, sapeva che, distogliendo la cavalleria, arma praticamente inutile nel caso in cui ci si trovi costretti all'interno delle mura, avrebbe anche sottratto delle bocche da sfamare ad una città già molto provata e contemporaneamente avrebbe potuto trovare miglior modo di impiegarla. La decisione del La Feuillade è stata molto criticata dagli storici perché si risolse in un grave danno per le armi francesi: si mise personalmente alla testa di un corpo di fanteria e cavalleria di ben 10.000 uomini nella speranza di spezzare il morale dei Torinesi e costringerli alla resa facendo prigioniero il loro Duca. La "caccia alla volpe savoiarda" durò quasi un mese, tra scaramucce, stratagemmi del Duca e piccoli scontri campali (come la battaglia di Cardé, favorevole alle armi sabaude); alla fine Amedeo trovò rifugio in Val Pellice presso le agguerrite comunità valdesi a lui fedeli per la sua tolleranza religiosa (persino i camisardi francesi, ugonotti, erano suoi alleati e militavano nel reggimento di fanteria Desportes). Il maresciallo francese si vide costretto a mollare la presa e a ritornare a Torino umiliato dove presto si accorse dell'inerzia che aveva colto in sua assenza il pur valido generale Chamarande, cui aveva affidato il proseguimento dei lavori. L'imprendibile cittadella, ulteriormente munita per ordine del Duca dall'ingegnere Bertola, e i bastioni cittadini resistevano ad oltranza rispondendo colpo su colpo alle cannonate francesi e attuando anche la feroce guerra sotterranea delle contromine.



La storia del contingente di corazzieri al comando del Generale Visconti è rocambolesca. Nell'ottobre 1703, alle sempre più pressanti richieste di aiuto del Duca Vittorio Amedeo, che vedeva le sue piazzeforti travolte una dopo l'altra sotto il rullo compressore costituito dall'avanzata francese verso il cuore del suo Ducato, il cugino Principe Eugenio, anch'egli a mal partito perché accerchiato dalle forze del loro cugino di secondo grado il Maresciallo Vendome, riuscì ad inviargli in soccorso le 1.200 corazze del Visconti. I Francesi, però, avvertiti della spedizione di soccorso, sbarrarono loro il passo attraverso il Monferrato e li costrinsero a valicare l'Appennino tentando di raggiungere comunque Torino dalla Liguria. Il marchese Davia, a capo della retroguardia imperiale, dopo cinque ore di scontri estenuanti, riuscì a far sì che il grosso del reparto potesse sganciarsi dall'inseguimento della cavalleria nemica. I francesi assoldarono anche dei briganti affinché li assalissero in un'imboscata lungo le strade di montagna che stavano percorrendo, ma anche questa volta gli imperiali riuscirono a sbaragliarli con poche perdite. Il Visconti tentò prima di eludere la sorveglianza francese dei passi appenninici, poi di trovare un imbarco su navi da guerra inglesi da Genova, infine riuscì ad imbarcare a Nervi, nei pressi di Genova, quei suoi uomini che erano feriti o avevano perduto le loro monte, su navi partite dal porto di Oneglia, l'ultimo ancora in mano ai Savoia. La Repubblica di Genova, infatti, benché formalmente neutrale, era di fatto uno stato satellite della Francia e, almeno nelle intenzioni del Re Sole, questa era la sorte che stava per toccare anche alla Savoia e al Piemonte. Contemporaneamente, con gli altri cavalleggeri di cui ancora disponeva, il Visconti riuscì a valicare l'Appennino attraverso il passo di Cadibona e a transitare poi da Cairo dove erano attesi da alcuni reparti di miliziani al comando del conte di Santena mandati loro incontro dal Duca di Savoia. Così finalmente, trentotto giorni dopo l'inizio della loro Odissea, più di 1.000 corazzieri riuscirono a giungere sani e salvi a Carignano, nei pressi di Torino, quartier generale delle forze montate sabaude.



Intanto, con grande gioia della cittadinanza, il 29 agosto 1706, dopo una marcia di quindici giorni dal Trentino realizzata esclusivamente di notte nel più assoluto silenzio e disciplina, finalmente il Principe Eugenio di Savoia giunse in vista di Torino con un'armata di soccorso di 24.000 fanti e 3.500 cavalieri, tra Austriaci, Tedeschi, Palatinali, Prussiani e Sassoni. La sua marcia non fu priva di rischi: abilmente riuscì ad eludere l'armata francese di osservazione del Duca d'Orléans, che aveva preso il posto dell'abile Maresciallo Vendome richiamato sul fronte delle Fiandre (ritenuto prioritario rispetto a quello italiano) per sostituire l'incapace Villeroy annientato dal generale inglese Duca di Marlborough a Ramilles. I due cugini si abbracciarono al campo di Carmagnola e tre giorni dopo, dalla collina di Superga, concordarono l'audace piano strategico che li avrebbe portati ad affrontare, di lì a cinque giorni, le ben 45.000 baionette e 10.000 sciabole dei franco-ispani.

E così infine siamo giunti all'evento risolutivo della Guerra di Successione Spagnola, almeno per quel che riguarda lo scacchiere italiano: il 7 settembre 1706, alla vigilia della battaglia di Torino, la cavalleria piemontese schierava cinque reggimenti: Piemonte Reale, Savoia Cavalleria e dragoni di Sua Altezza Reale (S.A.R.), su quattro squadroni ciascuno, il reggimento dragoni del Genevois, su tre squadroni, e infine le Guardie del Corpo del Duca di Savoia composte da due squadroni. Questi 17 squadroni, ognuno formato da 2 compagnie di 80 uomini ciascuna, se fossero stati a pieno organico, avrebbero dovuto assommare ad un totale di poco più di 2.700 uomini. In realtà neppure all'inizio della guerra i vari reggimenti di cavalleria avrebbero potuto contare sul pieno organico degli effettivi (8 compagnie per ciascun reggimento, 3.200 cavalieri); pertanto, dopo tre anni di guerra di occupazione e tenendo anche conto della natura montagnosa del Ducato e dunque logorante per le delicate monte, una stima più realistica colloca le consistenze effettive a circa 2.500 sciabole. Ad ogni modo non sfiguravano a fianco del contingente di cavalleria imperale, superiore di appena 1.000 uomini. I gallo-ispani erano però in schiacciante superiorità numerica, potendo contare su ben 10.000 cavalleggeri.



Venendo allo schieramento di dettaglio, i Piemontesi erano inseriti in parte nella prima linea di cavalleria (la terza dell'ordine generale di battaglia) sotto il comando dei generali di Cavalleria Marchese Visconti e Principe d'Assia Darmstadt (dragoni di S.A.R., Guardie del Corpo, e Piemonte Reale), e in parte nella seconda al comando del Generale di Cavalleria Marchese di Langallerie (reggimento Savoia Cavalleria e dragoni del Genevois); ad ogni modo erano tutti schierati nel settore sinistro, quello verso la Stura di Lanzo, sotto la diretta autorità del Duca Vittorio Amedeo II. I Maggiori Generali di Brigata sotto cui militavano i sabaudi erano il Falkenstein, il Monasterolo, il Conte Sinzendorff e il Tornon. Questo schieramento confermerebbe che i dragoni di Piemonte, non risultando all'appello, fossero dislocati a presidio dell'area collinare, nei pressi di Chieri, agli ordini del Conte di Santena, nel contingente che avrebbe, come si dice, "mostrato le insegne" per trarre in inganno e immobilizzare la divisione francese agli ordini del Generale Albergotti, visto che i francesi temevano un attacco da est e ritenevano improbabile la marcia di aggiramento con applicazione a fronte rovesciato che avrebbe portato l'armata del Principe Eugenio a schierarsi ad ovest, sulla strada verso la Francia. Secondo un'altra interpretazione i dragoni di Piemonte sarebbero invece stati collocati in Torino e avrebbero partecipato alla sua difesa dall'interno fino al giorno della battaglia, quando sarebbero intervenuti durante la sortita alle spalle delle linee francesi. Per dovere di cronaca, i corazzieri del Visconti erano allineati tra le Guardie del Corpo e il Piemonte Reale, a riprova della simbiosi che ormai univa i due contingenti dopo quasi tre anni di guerra e guerriglia costantemente fianco a fianco. Un'ultima curiosità: all'estremità opposta della linea imperiale, dalla parte della Dora Riparia nei pressi del Castello di Lucento, chiudevano lo schieramento i dragoni Von Savoyen, il reggimento proprietario del Principe Eugenio di Savoia, quello che, appena ventenne, aveva guidato coraggiosamente nel 1683 nella sua prima campagna militare, quella di liberazione di Vienna dai Turchi.

Fu proprio la cavalleria comandata personalmente dal Duca di Savoia a risolvere la giornata campale emergendo protagonista dei due momenti più importanti della battaglia. L'esercito francese era schierato lungo la linea fortificata di circonvallazione e poggiava l'ala destra del Generale d'Estaing sulla Stura, la sinistra del Saint Fremont sul castello di Lucento e la Dora, e il centro del Duca d'Orléans e del Maresciallo Ferdinand Marsin sulla cascina Arbandi. Gli imperiali attaccarono caricando per ben tre volte le posizioni nemiche su terreno scoperto e brullo sotto il tiro delle artiglierie e per tre volte, nostante l'intervento, con grande sprezzo del pericolo, di Eugenio alla testa dei suoi uomini, furono respinti. Il Principe Eugenio aveva potenziato l'ala sinistra del suo esercito affidata a suo cugino, il Duca Amedeo, perché riteneva che da quella parte le difese francesi fossero meno solide e che proprio quel punto dello schieramento fosse la chiave strategica dello scontro. Vittorio Amedeo non lo deluse: avvertito dagli ussari che aveva mandato in avanscoperta lungo il greto della Stura, individuò un ripido ghiaione, alto ben sette metri e ritenuto dai francesi impraticabile, che portava direttamente alle spalle della linea francese. Guidando personalmente un contingente di ussari, granatieri imperiali e le sue Guardie del Corpo piombò sul nemico scompaginandone l'ala destra e costringendolo al ripiegamento. Colpito sul fianco, il dispositivo francese cominciò a cedere progressivamente lungo tutta la linea del fronte, incalzato a destra dalle brigate Stillen, Hagen e Bonneval, al centro dalle brigate Zumjungen, Coppè ed Effern e a sinistra dalle brigate Konigsegg e Harrach, anche se qui la forte posizione di Lucento resistette imperterrita ancora per molte ore, rinforzata dai 3.000 dragoni a piedi distaccati dal settore del Duca De La Feuillade al di là della Dora. Il ripiegamento dell'ala destra francese consentì alle brigate imperiali di penetrare in profondità, questo però mise in pericolo gli attaccanti determinando un preoccupante vuoto al centro dello schieramento alleato in cui l'Orléans fu abile a lanciare subito le brigate di cavalleria Carcadè e Gonnelle. Eugenio capì al volo il pericolo e tamponò subito la falla inviando la brigata Bonneval che si stava allontanando sulla sinistra. Mise a repentaglio la sua stessa vita (un suo paggio e un suo domestico furono uccisi e lui stesso si vide abbattuto il cavallo finendo in un fosso, fortunatamente senza conseguenze), ma ebbe successo.



La cavalleria del Duca di Savoia dunque aveva rotto la situazione di stallo, ma la battaglia era ben lungi dall'essere ormai decisa: i Francesi, infatti, ripiegando ordinatamente come un'immensa porta che ruoti sul cardine costituito dal solido castello di Lucento, avevano apprestato una seconda linea di resistenza ad oltranza intorno alla Chiesa della Madonna di Campagna e alla cascina San Giorgio. Fu ancora Amedeo, con la carica di tre squadroni di suoi dragoni, al grido di "A moi mes Dragons!", a scalzare i francesi anche da questa posizione e a metterli in rotta. Il Duca d'Orléans si battè coraggiosamente e dopo essere stato ferito due volte, la seconda in modo grave, dovette abbandonare il campo per essere curato; l'anziano Maresciallo Marsin fu invece ferito mortalmente e morì poco dopo la conclusione degli scontri presso la cascina Brusà, dove aveva trovato ricovero. Senza più un comando, l'Armée d'Italie si sfaldò. Il colpo di grazia le fu inferto dalla sortita del Conte Daun, governatore militare di Torino nell'assenza del Duca, dalla città assediata, che attaccò alle spalle Lucento a la linea di contravvallazione su cui almeno il centro francese abbozzava ancora un'ostinata resistenza. Il generale Albergotti fece l'errore di non intervenire dalla sua posizione di fronte a Chieri; oppose un rifiuto alla richiesta di aiuto dell'Orléans, prima che questi fosse costretto a lasciare il campo, obbedendo così al Duca De La Feuillade che gli aveva ingiunto di rimanere fermo sulle sue posizioni per fronteggiare l'attacco dei 9.000 uomini del Conte di Santena che poi non avvenne. Con il suo comportamento condannò all'annientamento le stremate truppe borboniche nella pianura.



Anche Lucento alla fine cedette; una torma di francesi e spagnoli in fuga si accalcò sui ponti sul Po in cerca di una via di scampo, nella confusione e nonostante la resa di molti reggimenti tanti soldati furono falciati dalle artiglierie della cittadella, dei bastioni, dell'opera a corno del Valdocco, altri furono sciabolati dai cavalleggeri, altri annegarono gettandosi a nuoto nel fiume, moltissimi furono fatti prigionieri: gli assedianti persero tutti e 300 i cannoni e il 20% degli effettivi (ma quasi il 60% di quelli effettivamente coinvolti in battaglia). I Franco-spagnoli tentarono di riorganizzarsi a Pinerolo, ancora in mano loro, ma furono subito costretti ad intraprendere la via dei valichi alpini per la Francia incalzati e sciabolati dalla cavalleria piemontese, che già il giorno successivo alla battaglia iniziò l'inseguimento, nonché dai contadini stanchi di lunghi mesi di soprusi.

L'apporto dunque della cavalleria ducale per il buon esito della guerra e della battaglia di Torino fu determinante. La guerra poi continuò, ma senza l'apporto della cavalleria visto che il conflitto si spostò nella regione alpina in cui le forze montate poterono avere solamente un ruolo molto marginale.
Per dovere di completezza e per concludere l'arco cronologico in esame vorrei però comunque sintetizzare gli avvenimenti salienti che portarono alla conclusione della Guerra di Successione Spagnola, limitando naturalmente la trattazione agli episodi che si verificarono sul fronte italiano. Nel 1707, i due cugini intrapresero, con l'appoggio degli Inglesi, la spedizione contro il porto militare di Tolone, in Francia, solo parzialmente coronata dal successo, e conclusero l'anno di campagna con la riconquista di Susa. Nel 1708 il sodalizio purtroppo si interruppe perché Eugenio fu richiamato dall'Imperatore d'Austria e inviato a combattere i Francesi nelle Fiandre dove conseguì un'altra delle sue luminose vittorie a Oudenarde e l'anno successivo a Malplaquet, entrambe al fianco del Duca di Marlborough. Amedeo intanto si vide costretto, insieme al Generale Daun, a rintuzzare gli attacchi del Generale Villars in alta Val Susa e Val Germanasca: fermò il nemico sull'Albergian e sull'Assietta e lo costrinse a rinunciare al tentativo di invadere nuovamente il Piemonte. La guerra di confine si trascinò tra alti e bassi fino al 1712 quando il Generale James Fitzjames primo Duca di Berwick (bastardo dell'ex Re inglese Giacomo II e passato al servizio del Re Sole in quanto cattolico, come il padre) con il suo ingegnoso dispositivo militare soprannominato Systéme des Navettes inflisse delle dure sconfitte a Vittorio Amedeo che l'anno successivo fu persuaso ad aderire al trattato di pace di Utrecht con il quale fu sancita la spartizione dei domini spagnoli in Italia tra gli alleati. Il Duca di Savoia ottenne l'Alessandrino, la parte del Monferrato ancora sotto la potestà dei Gonzaga, la Lomellina e soprattutto la Sicilia. L'Imperatore d'Austria proseguì la guerra da solo, senza gli alleati, e il Principe Eugenio fu addolorato di quello che gli sembrò un tradimento del cugino, al fianco del quale sperava di proseguire il conflitto. Nonostante però le disposizioni di Utrecht, solo con la firma del trattato di Rastadt il 6 marzo 1714 tra la Francia e l'Imperatore Carlo VI si concluse la Guerra di Successione Spagnola. Il 10 giugno 1713 il Re di Spagna cedette la Sicilia al Duca Amedeo: il 3 ottobre 1713 dal porto di Villafranca il Duca si imbarcò per Palermo per prendere possesso dell'isola ed ottenere finalmente, con l'incoronazione, il tanto agognato titolo di Re di Sicilia, poi permutata sette anni dopo con la Sardegna...